Poche righe sui morenti e sulla vita che non muore: riflessioni su “L’inganno”, di Thomas Mann

Il regime naturale insegna a sfiorire. Premessa alla morte, l’imperativo imposto ad ogni lilium speciosus è quello d’arricciarsi sine die. Contravvenendo alla prassi che sia il generato a veder morire il generante, la natura di cui si predicò esser madre, l’uno in coda all’altro, accompagna i figli immondi all’altro mondo. E pare farlo con grazia rinascimentale, spurgandone i sudori ad arte. Sfiorisce anche Rosalia von Tummler, ne L’inganno di Thomas Mann.

Rosalia von Tummler, «figlia di maggio», malata della sua primavera, ne morì; fu il ventre che dà la vita, assieme alle sue poltiglie sanguigne, a darle la morte. Il suo ventre stillava le proprie resine: perdeva sangue umano, come accade ad una giovinetta. Si ricredette pronta ad abbracciare corpi di amanti, a lasciarsi alitare addosso le antiche voglie. Eppure quei grumi sanguigni non furono causati dal miracoloso ritorno del mestruo: un tumore abitava il corpo della von Tummler. «Le raffinate combinazioni della natura!», verrebbe da dire. E il vecchio lo sa. Solo il vecchio. Egli conferisce una certa dignità all’arricciarsi; e lo fa guardandosi le mani, almeno una volta assassine. Costui mantiene un aperto interesse al morire, come il lattante ai colori che la vita pare offrirgli. E come il lattante s’ammala compulsivamente di vita, egli fa lo stesso; ma lo fa come può farlo un morente che sa d’essere morente. L’avidità del lattante s’arriccia, dunque. Solo con meno grazia.


L’irrelatività del pensato

La nobiltà del concetto germoglia dalla sua dimenticanza. Nel vortice dell’oblio, come si direbbe a proposito di una pattumiera, finisce di tutto. Il nostro pensato restituisce la barbarie che ad esso appartiene. Nel postribolo a–spaziotemporale, reduce dal cultuale svernamento, il concetto è fatalmente riconosciuto (ἁναγνώρισις). Non v’è pessimismo che possa residuare (da una tale espressione di quella società che al pessimismo oppose la sua negazione). E qualche morto, restituito dalle acque della sacra storia. Alla risaputa (e non altrettanto temuta) relatività del mondo, l’irrelatività del proprio pensato si oppone. Tutto è uniforme: questo, invece, dall’homme social va temuto. La prerogativa del valente filosofo risiede, dunque, nel trarsi fuori dal relativo; per poi riaccedervi più relativo che mai. Il concetto si sottrae alle sentenze del tempo. . . L’inganno di cui ebbe a dire Schopenhauer (μαγεύω, μαγγανεύω. . . ), non fu che rappresentazione dello stesso caos schopenhaueriano. Il fatalismo sia sottratto alla sua dimensione esoterica, con lo stesso tremore dell’ultimo inchino: quello al capezzale. Da tale immagine derivò tale intuizione: che il nostro filosofare, delle immagini, debba essere privato.

Sociologia delle vongole: come il sapere sistematico si riduce a vuote nozioni

È chiaro ai più che i “saperi”, sin dalle prime categorizzazioni medioevali, han subìto svariate violenze in materia di classificazioni; è altrettanto chiaro che gli studiosi abbiano diffuso, consci o meno del danno incipiente, una patologia virale (potremmo denominarla sindrome dell’etichetta).  È bene sottolineare, prima di proseguire nella lettura di quest’articolo, che i portatori sani di tale patologia son più rari dei baristi che lavan le tazzine.

È più che sufficiente una fugace occhiata alle denominazioni degli insegnamenti erogati dalle Università, cari (più o meno) miei, per rendersi conto d’esser finiti in una neo-bolgia, sconosciuta da Dante e Virgilio: quella dei codici disciplinari. Parliamo delle sub-sezioni delle sezioni di ulteriori sezioni di categorie-madre, che al mercato un padre (non certo il mio, né quello di Branduardi) comprò. Fu così che il sapere unitario dei Greci, fondato su null’altro che la cosa prima e, dunque, conglobante ogni ramificazione epistemica e non, venne sventrato; prima dai sapientedi professione, poi da ministri che avrebbero dovuto ministrar minestrone (piuttosto che riforme) e disegni di carboncino e pastello (piuttosto che disegni di legge). Date un’occhiata, ma non più d’una, alla lista dei settori disciplinari del MIUR: http://www.miur.it/UserFiles/115.htm. Il sapere in lacerti, la conoscenza in brandelli: lo spezzatino i cui sapori, venga esso servito caldo o freddo, rimandano alla cena del giorno prima. Un giorno non lontano, cari (e non cari) miei, ci ritroveremo ad individuare nelle pagine del Miur una Sociologia delle vongole, in cui il “sapere” nozionistico e sistematico avrà sopravanzato docenti e studenti; un giorno non lontano, cari (e non cari) miei, passeremo il tempo a fissare mnemonicamente date e nomi, categorie e categorizzazioni, classi e tipologie, gettando in pattumiera la σοφία (e la bellezza).

Gli ultimi saranno i pini (ovvero, elogio del silenzio)

Da una prima premessa (ovvero che tacere è un’arte) e da una seconda (che l’artista è raro), segue che a tacere sono in pochi. Tre categorie di tacenti: 1) quelli che non hanno da dir nulla; 2) quelli che non dicono per timore di vomitare idiozie; 3) quelli che non dicono perché avrebbero troppo da dire.
Alla prima schiera, s’accede più facilmente di quanto si pensi. Si tratta, infatti, di una semplice variante del ciarlatano: la differenza, non indifferente ma nemmanco sostanziale, risiede nella via negationis tracciata dal soggetto.
Nei confronti della seconda categoria, ho sempre nutrito un certo favore. Trattasi dei pudici della parola. Realizzato di aver poco da dire, pudore e prudenza vengono a costituire le direttrici di questi miti militi. Rinunciato allo sfarzo e ripudiato lo sfoggio, han fatto del silenzio il proprio mandato.
La terza area, quella sapienti, pare abbia rinunciato alle proprie pretese dai tempi di Carneade. Ragion per cui, beninteso, agli appartenenti al ceppo è ormai comune il ricorso allo sproloquio.
L’auspicio di chi scrive, caro lettore, è che possa fondarsi un’etica della parola. Etica che si appresti a dare il verbo ai muti e a toglierla, se necessario, ai parlanti. Ma gli auspici, come del resto è noto, son roba etrusca. Chi è in cerca di silenzio, faccia sodalizio con un pino.

Apoteosi della fine

Si inizi da dove non partì mai nessuno: dalla fine. E si finisca in fretta. L’apoteosi della fine non è semplicemente un volere (che, come dicemmo, va sempre tra l’altro evitato); essa è il volere, l’unico volere  contra scientiam. Far proprio l’esercito nemico; poi, un sospiro di pace. Il pensato fu consegnato ai lamenti, come va fatto con i cadaveri. Qui si crede in una filosofia per garantire a se stessi che non ve ne siano altre. Perché sia così, il filosofo non deve ricevere investitura alcuna: le muse restino al loro posto ed egli al proprio. Non venne chiamato: il filosofo si chiama da sé. Così come anche le sue creature concettuali si adagiano sui pensieri abituali e vengono fuori, come se qualcuno le avesse mai richiamate al suo ventre. Dato che chiunque parli di qualcosa, per un momento, se ne appropria, il filosofo possiede ciò di cui blatera; conosce i mali perché li ha accolti in sé, per anatomizzarli meglio. Ciò che è in suo possesso, occorre osservare, comprende peraltro le damnationes de mundo e i pericoli che esse determinano. Ci ritroviamo come benevoli sciacalli, tra le macerie, in cerca di rimasugli di ciò che fu detto un tempo. Agguantare quel poco che rimane di quel poco che vi era di buono; ignorare il resto e rendersi conto di quanto non fu detto. La verginità del nostro concetto è data dal rifiuto del divieto che ad esso si pone. Ma il dolore del filosofo è un dolore della ragione; esso non è nessun frutto di abnegazioni, ma figlio di un qualche desiderio.

Olio al serio (ovvero, brevi considerazioni sull’umorismo)

Tanto s’è scritto e tanto si scriverà sull’umorismo. Non toccherà a noi districare certe matasse, in quanto: 1) non è nostro imperativo; 2) non ci è stato chiesto; 3) ho una forte emicrania. Occorre però, come in ogni caso simile, evitare facili conciliazioni tra gli opposti, preferendo loro, quando necessario, la proclamazione delle più insidiose divergenze tra modelli. Stiamo parlando dell’opposizione tra due homines: la scimmia dal facile riso e quella dal muso di trota.

Per eccesso di determinazione, avendo subìto e assorbito certe smanie classificatorie proprie di Ugo di San Vittore (che di cataloghi e suddivisioni fece l’oggetto del proprio mestiere), potrei essere portato ad arricchire la trattazione di ulteriori sottocategorie. Ci limiteremo peraltro ai due citati modelli, lasciando le ramificazioni al lettore, che in tale occasione si riscoprirà taglialegna.

Dovrebbe ormai essere chiaro ai più il tramonto dell’antico monito, rivolto agli imbelli più che agli ottimisti: risus abundat in ore stultorum. Il volto che non ghigna, ad oggi, è volto che generalmente non ha di fronte alcun altro. Semplicemente  perché lasciato da solo. E le motivazioni son chiare: il ghigno assicura e rassicura. Il mondo ride e che tu non lo faccia ti rende sospetto. (Andrebbe soggiunto, per par condicio, che il nemico del ghigno è in realtà il sospettoso per eccellenza). Olio bollente al serio, dunque. Alla maniera dei Giudei coi Romani. In alternativa, vi son sempre le Gemonie.

Spunto e virgola

Le letture recano con se stesse il senso della sorpresa. Per fortuna. Se non fosse che, talvolta, si preferirebbe non trovarle. Spacchettando buste d’insalata, è sempre possibile (e il lettore lo sa) trovarvi ospiti dal doppio paio d’ali; parimenti, l’occasione letteraria è sovente accompagnata da sorprese altamente pregnanti.

S’eluda l’odiosa prassi accademica della nota a piè di pagina, di cui me medesmo mi vergogno, per dirla petrarchescamente; i piedi, si sa, puzzano, fossero anche di carta. S’eluda  anche lo spirito informativo proprio dell’opera didattico-manualistica, per le cui esultanze si è portati ad informare il lettore che la citazione X si trovi alla pagina Y del libro di A, edito dalla Mentula Edizioni, nell’anno 0.

Altra, però, è la prassi ad oggi diffusa. Alla citazione, per sua natura richiamantesi ad un altro, viene meno la propria àncora: l’altro, per l’appunto. Non è difficile, pertanto, sentire odor di Schopenhauer, di Svetonio o di Numerius Negidius tra le pagine di un contemporaneo. Da che mondo è mondo, per carità, lo studioso ha sempre tratto spunto da un suo pari. Ed è anche un bene, aggiungiamo. Occorrerebbe peraltro attenersi alle seguenti regole: 1) nel caso in cui l’autore si limiti a trarre ispirazione dal testo di X, potrebbe non essere necessario riportare nomi e cognomi; 2) nel caso in cui l’autore copi e ricopi, tagli e ritagli, sarebbe opportuno accompagnare le righe con un “come dice Y” o con un “si legge in A”.

In alternativa, è sufficiente una fotocopiatrice.

Lo sbadiglio accademico

Poiché ogni quid ha un prius, tutto è rigorosamente fondato. Tale legge è valida anche rispetto al convegno accademico, in quanto l’istituzione d’alto sapere necessita d’un fondamento. Qualcuno potrebbe credere (legittimamente, s’intende) che il convegno si fondi e debba fondarsi sul quel solido piano che l’etimo suggerisce: cum-venire. Esso si fonderebbe, insomma, sul dialogo di idee (a patto che i generatori di idee siano sempre gli stessi, ma questo rimanderebbe a Federico II, motivo per cui ci fermeremo qui, in corsia d’emergenza).
Dicevamo, dunque, dell’urgenza di reperire un prius dell’accademico convenire, diciamo il fundamentum incocussum della sua forma istituzionale. Non lo si riscontra, di certo, nei fervori simposiaci propri del fare di certi platonici. Alcuna garanzia ci offre nemmanco il ritenere fondanti le dinamiche del quodlibet medioevale. Peculiarità del dialogo di idee dell’accademia contemporanea, di solito, è quella di un salto ulteriore rispetto al passato: si è riusciti ad intrecciare dialoghi di idee senza idee. Il dialogo si è, insomma, privato del suo oggetto. Del resto, chi ci obbliga al contenuto, se ci si può liberamente limitare al contenente?
Ci avviciniamo, dunque, al riscontro. Secondo i dettami della legge dell’evidenza lasciataci dal buon Cartesio, il fondamento di cui siamo in cerca, tra uno sguardo e l’altro, dovrebbe apparire. Dunque, lettori: quale elemento è mai assente al convenire di cattedratici in odore di ambita e fasta pensione? Cosa non manca mai alle tavole rotonde (fossero anche quadrate) dell’istituzione d’alta cultura del Duemila? Ripensate alle pose da spiaggia libera, alle mani ciondolanti dalle poltrone della platea. Ripensate all’occhio socchiuso dell’audente e a quello dell’orante, costantemente rivolto all’orologio.
Cercavamo il fundamentum, dunque. L’abbiam trovato nello sbadiglio.

La presa della pastiglia

La storia ci insegna (parafrasare è un lusso che va concesso a chi scrive, in quanto, generalmente, altri lussi non ha) che ogni 14 luglio 1789 (chi ha detto che un giorno, una volta fissato in un anno, perda la propria futuribilità?) conviene star lontani da certe fortezze (specie se vi ha soggiornato Voltaire).
Dacché non è mai stato sufficientemente chiaro quali fatti e quali eventi siano effettivamente da considerare “storici”, ci sorge qualche legittimo dubbio (ammesso che, tra i dubbi, se ne possano annoverare di illegittimi). S’è discusso, anche se non troppo, in dottrina, dei margini tra lo storico e il non-storico. Tra queste categorie, potremmo instillare, sotto benedizione di tale Proclo, numerosi altri gradi; mi passerete, pertanto, un brusco passaggio dall’ipostatico all’ipostorico.
Vi sarebbe, dunque, più vicino al fatto storico che a quello non-storico, il fatto quasi-storico. Potrebbero farne parte tutti quei fatti che, pur non potendosi collocare chirurgicamente sulla linea del tempo, rinunciando dunque all’imperativo cronologico proprio d’ogni tentativo storiografico, assumono veste storica in virtù della loro pregnanza. Esempio: se è vero che ci risulti estremamente arduo individuare valide datazioni del passaggio da Illuminismo e Romanticismo, è anche vero che tale passaggio vi fu. Esso fu graduale e la gradualità, si sa, piace ai neoplatonici, non agli storici. Sta di fatto che, tra lume e passione (mi sia concessa tale categorizzazione sommaria, dovuta all’obiettivo della trattazione, ovvero alla rinuncia a qualsivoglia obiettivo), il passo vi fu. Ma fu un passo di lumaca. Il grado ipostorico del quasi-storico, dunque, accorre in aiuto.
Altra categoria sarebbe quella dell’eventualmente-storico. Come ignorare, del resto, tutto ciò che non s’è compiuto ma che avrebbe potuto compiersi? Un po’ come quando, trasferendoci sul piano della vita domestica, si manchi la presa della pastiglia. Ogni vegliardo che si rispetti, nelle prime ore della giornata, ha quotidianamente appuntamento con cure dettategli dal proprio medico. E, se malauguratamente dovesse dimenticarsene, potrebbe costargli caro. Proprio come accadde a Robespierre. Più o meno.