Da una prima premessa (ovvero che tacere è un’arte) e da una seconda (che l’artista è raro), segue che a tacere sono in pochi. Tre categorie di tacenti: 1) quelli che non hanno da dir nulla; 2) quelli che non dicono per timore di vomitare idiozie; 3) quelli che non dicono perché avrebbero troppo da dire.
Alla prima schiera, s’accede più facilmente di quanto si pensi. Si tratta, infatti, di una semplice variante del ciarlatano: la differenza, non indifferente ma nemmanco sostanziale, risiede nella via negationis tracciata dal soggetto.
Nei confronti della seconda categoria, ho sempre nutrito un certo favore. Trattasi dei pudici della parola. Realizzato di aver poco da dire, pudore e prudenza vengono a costituire le direttrici di questi miti militi. Rinunciato allo sfarzo e ripudiato lo sfoggio, han fatto del silenzio il proprio mandato.
La terza area, quella sapienti, pare abbia rinunciato alle proprie pretese dai tempi di Carneade. Ragion per cui, beninteso, agli appartenenti al ceppo è ormai comune il ricorso allo sproloquio.
L’auspicio di chi scrive, caro lettore, è che possa fondarsi un’etica della parola. Etica che si appresti a dare il verbo ai muti e a toglierla, se necessario, ai parlanti. Ma gli auspici, come del resto è noto, son roba etrusca. Chi è in cerca di silenzio, faccia sodalizio con un pino.