Scrissi che della verità si prende atto su di un letto. Il letto ospita, ma tanto quanto è ospite esso stesso. Ad ospitarlo è la trascendenza dell’atto coitale. Gli ardori di uno spasimo confinano la fisiologia, rendendola impotente a dar conto del frangente estetico, così come di quello estatico. Nell’atto degli atti, quella trascendenza che unisce si mostra nella sua peculiarissima duplicità.
ἁναγνώρισις, ci insegna la tragedia greca. Un protagonista riconosce, ex abrupto, un personaggio altro da sé. Da tale riconoscimento, prende forma la chiusa; riconoscere l’altro determina il corso dei fatti, l’inspiegabile stratificarsi degli eventi.
Il trascendere sta nello stringere chi è altro, così come nell’approdare alla vaporosa forma, alle diafane strutture di ciò che sta oltre il mondano. Nelle lenzuola, come nei sudari di certi sepolcri, si amano i profumi dell’oltre, i nobili effluvi dell’altro. Qualcosa accade. E la logica non sa dire cosa. «Mi nutre il tuo corpo! Mi salva da ignobili croci!», dice lo sguardo. Nobile cibo è l’altro, pietanza gloriosa, nettare patrizio, eucaristia. L’atto che è proprio del letto, del resto, non può che dirsi eucaristico. Comunione. In comune son messi, come nel tragico della guerra, i corpi; in comune è la misterica emissione fonica, in lingua mal nota, sconosciuta, eppure familiare; in comune è il sussulto, lo è l’occhio che quasi lacrima, che stilla, che non ne ha vergogna; in comune è quell’andirivieni il cui tratto è breve, quell’oscillazione vivissima che può persino dare la vita; in comune è la violenza che è propria dell’atto, dell’impeto di chi accede e incede nel corpo; in comune è la fame, in comune è il languore, solutio all’uggia, al formidabile tedio dei vivi; in comune è il nutrirsi dei densissimi fumi del desiderio, dell’inclito servizio del corpo, stretti e incendiati nelle notti più calde.