È chiaro ai più che i “saperi”, sin dalle prime categorizzazioni medioevali, han subìto svariate violenze in materia di classificazioni; è altrettanto chiaro che gli studiosi abbiano diffuso, consci o meno del danno incipiente, una patologia virale (potremmo denominarla sindrome dell’etichetta). È bene sottolineare, prima di proseguire nella lettura di quest’articolo, che i portatori sani di tale patologia son più rari dei baristi che lavan le tazzine.
È più che sufficiente una fugace occhiata alle denominazioni degli insegnamenti erogati dalle Università, cari (più o meno) miei, per rendersi conto d’esser finiti in una neo-bolgia, sconosciuta da Dante e Virgilio: quella dei codici disciplinari. Parliamo delle sub-sezioni delle sezioni di ulteriori sezioni di categorie-madre, che al mercato un padre (non certo il mio, né quello di Branduardi) comprò. Fu così che il sapere unitario dei Greci, fondato su null’altro che la cosa prima e, dunque, conglobante ogni ramificazione epistemica e non, venne sventrato; prima dai sapientes di professione, poi da ministri che avrebbero dovuto ministrar minestrone (piuttosto che riforme) e disegni di carboncino e pastello (piuttosto che disegni di legge). Date un’occhiata, ma non più d’una, alla lista dei settori disciplinari del MIUR: http://www.miur.it/UserFiles/115.htm. Il sapere in lacerti, la conoscenza in brandelli: lo spezzatino i cui sapori, venga esso servito caldo o freddo, rimandano alla cena del giorno prima. Un giorno non lontano, cari (e non cari) miei, ci ritroveremo ad individuare nelle pagine del Miur una Sociologia delle vongole, in cui il “sapere” nozionistico e sistematico avrà sopravanzato docenti e studenti; un giorno non lontano, cari (e non cari) miei, passeremo il tempo a fissare mnemonicamente date e nomi, categorie e categorizzazioni, classi e tipologie, gettando in pattumiera la σοφία (e la bellezza).