Acque di uno stagno: una volta sedotte e conturbate dalla caduta di un calculus, rivelano all’occhio il riflesso larvale di un paesaggio. Eccolo, il semidio, sconfitto nelle sue vomitevoli imprese: regge i brandelli delle sue carni decomposte e ne apprezza le fattezze; nell’atto di sbavare di fronte alla sua preda, guerreggia contro l’obiectum che non può afferrare. Zimbellatore di ciò che detesta, soltanto un homo adversus al suo volere, ebbene, può. Ha inizio un duale spettacolo. Un esilarante entracte ne divide i dovuti massacri. Scrivere della verità, beninteso, è scrivere su una lapide. E poi? È la filosofia quel che resta del filosofo? O è il filosofo quel che resta della filosofia? Il reliquato del suo pensiero non poté che essere egli stesso. Quell’odioso filosofare come contemplazione del relitto. . . È quando il filosofo si innalza (o si riduce) alla sua filosofia che questa prende forma. L’amante del relitto addolcisce il tanto pesante concetto. . . e lo sostituisce con la sua tanto leggera applicazione umana. Che ad essere schiacciato sia io, pensai, non il concetto. Una vera filosofia è figlia del dolore che ne fu il padre. Essa è il prolungamento, l’evoluzione del dolore; a volte, il dolore stesso. Il resto non è che fisica teorica. Il filosofare, dell’io, è l’ultima parola, quella che non va pronunciata; se non consegnando se stessi. Quell’odiosa convinzione di cognoscere il vivere semplicemente vivendo. . . Come se, dall’imposizione dell’atto di vita, prendesse già piede una qualche forma di sapere. Ecco cosa il filosofo deve sopprimere e, con essa, il sorriso di Kant. Il vivere va studeato, come si studiano le mosse del nemico.