Un filosofare infestato dai suoi stessi rumori, come caste urbi nei processi di urbanizzazione che le coinvolgono, fu il προσκήνιον kantiano. Indagare d’ogni filosofia le quote come dell’amante il colore degli occhi. Troposfera del giudizio sintetico, esosfera della dialettica e cilestrino dell’iride: l’occhio di Atena su tutte le cose. Cercammo la verità per mezzo di essa stessa. Sì, Blanche, la verità è di chi ce l’ha già.
La lode al particolare, che fu spirito delle ricognizioni kantiane, segnò per sempre l’incapacità nella valutazione del tutto. L’oggetto della nostra contemplazione, Blanche, fu l’oggetto della rinnegazione settecentesca; ma quali lumi? Cola oro! E gli sputi dal cielo! La verità che ti cade sulla pelle, Blanche; come il catrame che, «sfregato sui denti e sulle gengive, li preserva in modo eccellente; che addolcisce l’alito e rende la voce forte e chiara». L’unico e sincero rovello della direzione kantiana, Blanche, fu sperimentare che una materializzazione della coscienza fosse possibile, ma ad una demonica condizione: che ciò avvenisse in silenzio. I Manuels de bon philosophe, assoggettati all’ordine del messaggio che essi intendono veicolare, andrebbero dati alle fiamme come non meritarono le streghe. Questi, Blanche, sono i tempi delle pagine bianche. E dei latrati. « Quod cito fit, cito perit ». Ma quale Eden. . .