Qualunque umano che abbia mai calpestato la terra, sulla Terra, ha almeno una volta colto un fiore. Per meglio dire, almeno una volta ne avrà colto uno. Qualcuno direbbe (e l’avrò detto anch’io): «Il fiore sta nel campo, nel campo va lasciato». Andrebbe lasciato alla terra ciò che alla terra appartiene, in altre parole. Eppure la Terra richiama. Ella, dea, intramontabile, richiama alle sue leggi. E legge vuole, talvolta, che un fiore vada colto.
«Sia strappato dal ramo il frutto». Qui la lex non è scripta (e forse è meglio così). Eppure parla chiaramente, più del verbo inchiostrato. Qui è il sussulto del ventre, il solco profondo degli intestini, la fame atavica che è del mondo. Chi coglie un frutto, ebbene sì, lo coglie per succhiarne i suoi succhi. Ma il fiore?
Chi coglie un fiore, a ben guardare, non se ne nutre. Lo si pone sul letto degli amanti. Lo si consacra a un nume o ad una donna, il che è un po’ lo stesso. Lo si accosta al naso: olezzi lontani, amori, delizie. Il fiore è colto per. Anche qui vige una lex che scripta non è. A differenza di quel che accade al frutto, però, qui, chi coglie non coglie per sé.
Oserei dire che, talvolta, un fiore si coglie da sé. E ciò avviene, miracolosamente, sine flore. Il fiore non c’è, ma esso è da sempre, come quelle «cose che non avvennero mai, ma sono sempre» (Saturnino Secondo Salustio, Degli dèi e del mondo). Tra le cose che sono sempre, che sono da sempre, il fiore ‘colto per’ eternizza l’atto, lo educa al sempre, lo addestra alla rinuncia nei confronti del prima e del dopo.
Per lo spirito, tempo di penuria e di magrissime vacche. Nel secolo in cui persino la spiritualità sembra essersi ridimensionata e incasellata in certi suoi automatismi, Angelo Branduardi sembra costituire uno degli ultimi propugnacoli di quell’arte che conversa con il sacro, che approda alla mistica, che riferisce la bellezza al suo primo luogo: l’Assoluto. Nel «Kyrie Eleison» (il cui ascolto è stato reso disponibile gratuitamente per una settimana) si intreccia il refe di cui s’è detto. Dall’umo della Missa Luba, Branduardi e Luisa Zappa hanno cavato fuori una gemma nitentissima e dura.
«Ed un lume non basta
per portarmi la luce.
Tutto il pane non basta
per saziare la fame.
Tutta l’acqua non basta
per calmare la sete».
Nel fare dell’uomo v’è, insomma, cortezza. Carenza e miseria si abbracciano; e lo fanno in un abbraccio che è esiziale. Si leva un grido volto all’Assoluto. La risposta che perviene all’orante ricalca i toni della domanda, lasciandoli emergere come sondati. Il silenzio s’è rotto come le acque di madre. Peraltro la risposta è barbicata nella domanda. Se «tutto il fuoco non basta per scaldarti le mani», è perché il vero fuoco sta al di là del fuoco. «Oltre le ombre cammina», dunque.
Scrissi che della verità si prende atto su di un letto. Il letto ospita, ma tanto quanto è ospite esso stesso. Ad ospitarlo è la trascendenza dell’atto coitale. Gli ardori di uno spasimo confinano la fisiologia, rendendola impotente a dar conto del frangente estetico, così come di quello estatico. Nell’atto degli atti, quella trascendenza che unisce si mostra nella sua peculiarissima duplicità.
ἁναγνώρισις, ci insegna la tragedia greca. Un protagonista riconosce, ex abrupto, un personaggio altro da sé. Da tale riconoscimento, prende forma la chiusa; riconoscere l’altro determina il corso dei fatti, l’inspiegabile stratificarsi degli eventi.
Il trascendere sta nello stringere chi è altro, così come nell’approdare alla vaporosa forma, alle diafane strutture di ciò che sta oltre il mondano. Nelle lenzuola, come nei sudari di certi sepolcri, si amano i profumi dell’oltre, i nobili effluvi dell’altro. Qualcosa accade. E la logica non sa dire cosa. «Mi nutre il tuo corpo! Mi salva da ignobili croci!», dice lo sguardo. Nobile cibo è l’altro, pietanza gloriosa, nettare patrizio, eucaristia. L’atto che è proprio del letto, del resto, non può che dirsi eucaristico. Comunione. In comune son messi, come nel tragico della guerra, i corpi; in comune è la misterica emissione fonica, in lingua mal nota, sconosciuta, eppure familiare; in comune è il sussulto, lo è l’occhio che quasi lacrima, che stilla, che non ne ha vergogna; in comune è quell’andirivieni il cui tratto è breve, quell’oscillazione vivissima che può persino dare la vita; in comune è la violenza che è propria dell’atto, dell’impeto di chi accede e incede nel corpo; in comune è la fame, in comune è il languore, solutio all’uggia, al formidabile tedio dei vivi; in comune è il nutrirsi dei densissimi fumi del desiderio, dell’inclito servizio del corpo, stretti e incendiati nelle notti più calde.
Figlia che corri al tuo prato, figlia che piangi sul letto. Figlia che mangi, figlia che corri, figlia che stringi. Figlia ogni volta che perdi. Figlia che dimezzi il sorriso. Figlia che abusi della rinuncia. Figlia che viaggi; e lo fai da ferma. Figlia quando ti volti. Figlia chiassosa, rumorosa. Figlia che nutri le stanze; di parole per le mie assonanze, di abbracci tremanti, di speranze. Figlia quando posi su rami spezzati. Figlia che giochi dietro al cespuglio; figlia ogni volta che tuoni e ti penti. Figlia quando ti abbandonerai al silenzio di chi verrà ad amarti. Figlia, forse avrai vent’anni e vestirai ancora il tuo bianco. Passeranno giorni in cui i tuoi occhi non vedrò, ché non li hai ancora. Eppure, un giorno, ti diranno: «Tuo padre t’amò tanto, anche quando non ti era ancora padre». Figlia affamata. Ti insegneranno gli amici, ti tradiranno feroci, verranno parole aguzze. Ti mentiranno alla soglia e, che Dio non voglia, proprio di notte aggrediranno i tuoi sogni. E tu non temere, nel sonno non tremare; ché, ad ogni tuo sussulto, un fetore di tabacchi orientali ti giungerà al fiuto. E, quando t’avranno punto, correrò a dirti che no, non è nulla. Ché ti sarò eterna culla. Ed eterno è il nome che non hai, che eppure sei. Guerriera dal cuore deluso, dall’occhio offeso dal crocchio. Dolcissime notti possa darti il tempo.
L’alterità è il solo bacino e la sola possibilità. A tre anni dalla pubblicazione di Blanche, su cui volontariamente ho fatto silenzio, tornerei a ribadirne con forza le battute finali, ovvero le uniche investite da una missione: dare senso a tutto il testo. Qualcuno l’ha compreso, altri no.
Homo è errante. Egli calpesta terra da migliaia di anni, errando nella duplice accezione dell’errare. Ce lo insegnò la Gnosi. Homo erra e raglia. Nel suo ragliare, dà nomi alle cose. «Ma la verità addusse nel mondo dei nomi, poiché è impossibile insegnarla senza nomi» (Vangelo gnostico di Filippo). Benvenuti nel regno della categorizzazione, in cui tutto si nomina, perdendo parte del tutto. E perdendone la parte migliore. La netta cesura che si volle individuare nel rapporto tra sessualità e sentimento, a ben guardare, meriterebbe alcune revisioni.
Se, come scrive Simmel, «appena è presente l’amore in questo senso teleologico, commisurato ai fini della specie, esso è già anche qualcosa di diverso, che trascende tale condizione», ciò si deve alla trascendenza della sessualità stessa rispetto all’ordine naturale. Il desiderio, qui, si offre come chiave. Lo scenario è commisto, le sue logiche intrecciate. Nell’errare di Homo, egli incontra l’altro e l’immagine che gli appartiene; ne sviluppa una fiorita anatomia. È, per l’appunto, l’Anatomia dell’immagine rintracciata da Hans Bellmer. Approdo primario all’alterità, essa si regge sul desiderio, il quale, «quanto all’intensità delle sue immagini, non prende le mosse da un insieme percettivo, bensì dal particolare» (Bellmer). Il primo effetto della produzione estetica dell’altro, al di là di tutto, è la produzione estatica che le consegue. L’altro è; e la sua immagine è la mia estasi. L’amante si fa legislatore abrogante: ogni muro va abbattuto. La re-latio è la mia ambra, l’altro è il sogno aulente.
La distinzione operata da Lacan tra reale e realtà, prima ed oltre la dimensione psicanalitica, porrebbe una prima battigia. Il reale sarebbe, per l’appunto, la dimensione del desiderio e dei suoi artigli; la realtà si limiterebbe alla miseria della cornice quotidiana, alla condanna a mediocri orologi e scrivanie. Se nel desiderio si ravvisa un richiamo al reale, dunque, ciò avviene per il semplice fatto che esso sia il reale stesso. Il richiamo alla normalità (intesa come tessuto di norme morali, sociali e, più in generale, proprie del patrimonio collettivo), operato dalla realtà, nulla può al cospetto della forza brutale del reale. Chi desidera è pronto a tutto. È qui il caso di porsi una domanda: può il desiderio rientrare del tutto in una prospettiva naturalistica? È proprio lo stesso Freud a prendere le distanze da una simile posizione. Recalcati ha già sufficientemente evidenziato come egli «escluda la riduzione della vita sessuale al paradigma naturale della riproduzione. Egli scopre che la pulsione sessuale è fondamentalmente autoerotica, cioè punta al suo proprio soddisfacimento, il che significa che nel corpo umano c’è qualcosa di bizzarro che non risponde alle leggi della natura, alle leggi della riproduzione». Nella sessualità, insomma, v’è qualcosa che sfugge al controllo da parte di quella stessa natura che l’ha generata. Figlia di quest’ultima, la sessualità trascende le più sofisticate fisiologie naturali. Se nelle dinamiche rilevate dall’evoluzionismo biologico la sessualità è stata prodotta, quest’ultima le ha poi trascese.
«Send me an angel. Save me». La dimensione salvifica dell’amore può essere così saldata in parole. Sono quelle di David Lynch, in Good Day Today. L’angelo alato, come alata è l’aquila che Nietzsche riconobbe nella giovane Lou: «Ma poi il caro uccello Lou mi traversò a volo la strada, e io lo credetti un’aquila. E a quel punto volli che l’aquila mi restasse accanto». Le scrisse il 4 agosto 1882, da Tautenburg. Sovversione e ribaltamento. L’amore è culto del rovesciamento. L’ordine sovvertito è la messe dell’incompiuto. E così l’ardore si fa portatore di senso; laddove il senso è anche quello di marcia. La nota caratterizzante di questa costellazione è la duplice teleologia che le appartiene: salvezza aquilina e dannazione del corvo. «Ciò che non ha il nerbo di innalzarci in alto, ebbene, ha di certo la possanza di scagliarci nel vuoto», scrissi altrove. Ecco: amare è possibilità, amare è entrambe le possibilità. E, se la possibilità sta più in alto del reale (ci abbeveriamo qui alla fonte di Heidegger, ma servendocene per altri scopi), l’amato vive di tale possibilità. Urge precisare, in quanto l’appena citata osservazione del filosofo di Sein und Zeit pare piuttosto abusata, che ciò che egli intese affermare (in un contesto del tutto diverso dal nostro) fu una piena coincidenza di possibilità e realtà. Se, per chi è amato, l’amante pare l’unica possibilità, ecco allora che egli emerge come sua decretata realtà. Nel suo emergere, l’amante è emersione ed emergenza. Egli pare trasudato dal nulla e prorompe; egli è distinto e distingue, scalcia nel grembo del possibile. «Signori, la biografia dell’Io non è ancora stata scritta» (Benn). L’amante sfila allora una delle sue penne dorate, poiché egli s’è fatto angelo. Egli pare bisbigliare all’orecchio di chi gli è diletto: che nulla ti sia più implume.
Reale è ciò che s’impone. Ce lo insegnano le baccanti e i tribunali. L’amore come atto libero, ben longinquo da essere realmente tale, ne costituisce la favola rassicurante. Agli occhi dell’osservatore più acuto (vale a dire a quelli del poeta), pare che il miele (che egli pure assapora con gli occhi) si faccia acre come non mai. Amare è lex non scripta. Al malcapitato non è dato sottrarsi, se non per poi venirne travolto con forza maggiore di prima. Non è dato fuggire da Dioniso, insegnò Euripide. Il placido Burkert: «La costituzione umana include programmi biologici riguardanti l’ansia e la fuga, più antichi della specie umana […], correlando minaccia, allarme, inseguimenti, fuga, e l’espediente di abbandonare […]». Il furfante, però, verrà presto braccato.
Veniamo alla stanza degli amanti. Qui si fiuta «quel disordine che denuncia la presenza della musa», come Puškin ebbe a dire. Eppure il disordine in questione dà ordinamento, ergendosi a fonte del diritto cosmico. L’amante è soggetto alle esecuzioni che egli stesso si dà, annunciandosi come boia e rinunciando ad ogni difesa. Su di un letto la verità è compiuta. È sulle lenzuola ch’essa scrive, si scrive e vi si iscrive, inchiostrandole. Verità e amore sono stilografici. E si servono di validi inchiostri. L’amore fa acqua da tutte le parti, maculando i panni da letto e scrivendovi sopra con arte. «Unire carne e idee, questo voglio anche da un rapido abbraccio. […] Questo voglio dalla donna con cui vado: non i suoi soli umidori ma anche, ripeto, che si parli a letto del problema della verità», scrive Manlio Sgalambro. L’amore è ab-solutus, in quanto sciolto per sua natura da tutto ciò che non è esso stesso; gli appartiene la medesimezza che si predicò del divino. Esso segue «il ritmo segreto delle catastrofi» (Benn), ma lo fa con estrema grazia. Inno a colui che baciò bocca «tutto tremante» e a colui che coglie ancora i «capei» che di Laura furono «sparsi».
«Uno speciale segno ansiogeno è l’occhio che fissa», ci ricorda ancora Burkert. Si pensi, allora, allo sguardo degli amanti: come Titiro dà pace e come una belva esagita e perturba.
σύμβολον. σύν «insieme», βάλλω «gettare». Il simbolo congiunge i distinti. Esso è al di là di ogni atto, ponendosi invece come fatto nudo. Nel simbolo si incarna il vinciglio. In questa incarnazione, la medesimezza è superata persino presso se stessa. In questo «mettere insieme», si unisce non solo quel che rimarrebbe altrimenti diviso; a trovare unità è anche ciò che è indiviso nella sua regale potenza, eppure è osteggiato. Anulus. Un anello, un piccolo e stretto cerchio metallico. Si fissa e si radica nel quarto dito. Concresce con esso, appartenendogli ed avendolo in appartenenza. Si appropria di quel medesimo che più non è tale. Rutila alla luce, irrora i ricordi.
εἴδωλον. Un’immagine documenta il sottrarsi. A Paride, ad Alessandro, Elena sfugge. E diremo di più: sfugge anche l’immagine stessa, il fantasma. Evanescente per sua natura, l’immagine non si dà. Elena è una notte frangente. È un incendio redento. Si sottrae Elena, lo fa la sua immagine; lo fa anche la sua idea, col passo silente. Non ci è dato sapere cosa e chi sia effettivamente partito con quelle navi. Elena è dove non compare. Fu così che a Troia si combatté per un’immagine; ma si combatté a lungo, si combatté davvero.
Il sangue, le ferraglie degli armamenti, i sussulti degli armati, le lunghe attese delle mogli, quelle infinite delle vedove, sembrano dare consistenza persino all’assenza. Per un gioco paradossale, l’assente presenzia, in sua assenza, alla sua assenza. Elena attraversa il mare senza attraversarlo. Elena è il qui, è l’altrove; è il certo, è il forse, è il tacito. Elena è lo scoppio, è il tuono.
Un fiore non è mercanzia, un fiore non ha mercanzia. Non può essere liquidato, né si liquida. Un fiore può essere alienato, ma ciò può avvenire una volta sola. Viene ceduto senza negozio, tradisce ogni logica di mercificazione. Un fiore, insomma, non può essere ceduto; così come non può essere rifiutato. Nel baleno stesso in cui esso è andato, esso non può andare oltre. La meta destinatagli è l’unica a cui può pervenire, è l’ultima presso di cui può aulire. Suo attributo è, insomma, la destinazione. Un fiore è destinato, in quanto è portatore del proprio destino. Così come un fiore non può andare oltre la meta a cui è stato assegnato, esso non può nemmeno fare ritorno. Un fiore non torna indietro. Come già detto, eternizzato l’atto, non v’è il prima e non v’è il poi. Lasciate le sponde di chi dà, approda definitivamente a quelle di colui al quale è dato.
Folle è censire i fiori dati, sulla Terra. Folle stilare un elenco di quei petali felicemente appassiti, mitemente destinati e destinanti al sempre. E quel mortale che dà un fiore, col sorriso dell’amata falcato sul petto, inghiotte parole di granaglie eterne.
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